ISM-Italia

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ISM-Italia è il gruppo di supporto italiano dell‘International Solidarity Movement (ISM) palestinese.

Da leggere: Non ci sarà uno Stato palestinese di Ziyad Clot

Non ci sarà uno Stato Palestinese di Ziyad Clot

a cura di Diana Carminati e Alfredo Tradardi

Zambon editore 2011, pag 305, prezzo 15 euro

non ci sarà uno stato palestinese flyer promozionale

INDICE

Nota dell’autore all’edizione italiana

Nota dell’autore all’edizione francese

Introduzione – Dire la verità al potere

Aeroporto Charles de Gaulle/Settembre 2007

I primi passi/Settembre 2007

Beirut, lontano da Annapolis Novembre/dicembre 2007

Ramallah Gennaio/Febbraio 2008

Gaza, l’intimidazione Gennaio/Febbraio 2008

«Palestitanic» Febbraio/Marzo 2008

Haifa Aprile 2008

Nakba Maggio 2008

Ngoziati Giugno/Settembre 2008

“L’offerta generosa” Settembre/Ottobre 2008

Obama Novembre/Dicembre 2008

Gaza, la punizione Dicembre 2008/Gennaio 2009

Il ponte di Allenby Primo marzo 2009

Post-scriptum – “Israeltine”

ALLEGATI

Ringraziamenti

Nota dell’autore all’edizione francese

Questo libro è nato dalla volontà, molto personale, di testimoniare.

Un giorno ho deciso di andare in Palestina. La mia famiglia materna è originaria di Haifa.

Ad Haifa ho scoperto la casa dei miei nonni. La mia casa.

Mi sono poi imbattuto nel “processo di pace”. Sono diventato testimone e attore della sorte destinata, in quelle discussioni, ai profughi palestinesi. Ho visto da vicino l’impossibilità di realizzare uno Stato palestinese.

Più tardi, nell’inverno 2008/2009, mi sono trovato impotente di fronte alla spedizione di morte dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. Come molti, quell’episodio mi ha sconvolto. Come pochi, ho avuto la possibilità di assistere ai retroscena.

Ho pensato che fosse mio dovere condividere la mia esperienza in terra israelo-palestinese. Questo libro ne è la storia.

Perché ho vuotato il sacco sulla Palestina di Ziyad Clot, The Guardian, sabato 14 maggio 2011

L’attacco israeliano contro Gaza e i disastrosi «colloqui di pace» mi hanno costretto a rivelare quello che sapevo.

In Palestina è giunto il momento della riconciliazione nazionale. Alla vigilia della commemorazione del 63° della Nakba – lo sradicamento dei palestinesi che ha accompagnato la creazione dello Stato di Israele nel 1948 – questo è un momento molto atteso e un momento di speranza. All’inizio di questo anno il rilascio da parte di Al-Jazeera e del Guardian di 1.600 documenti relativi al cosiddetto processo di pace ha provocato profonda costernazione tra i palestinesi e nel mondo arabo. I Palestine Papers coprono più di 10 anni di colloqui (dal 1999 al 2010) tra Israele e l’OLP, illustrano le conseguenze tragiche di un processo politico iniquo e distruttivo che si basava sul presupposto che i palestinesi potessero realmente negoziare i loro diritti e ottenere l’autodeterminazione, mentre subivano le conseguenze dell’occupazione israeliana.

Il mio nome è stato indicato come una delle possibili fonti di tali rivelazioni. Vorrei chiarire la portata del mio coinvolgimento in queste rivelazioni e spiegare le mie motivazioni. Ho sempre agito nell’interesse del popolo palestinese, nella sua interezza, e al meglio delle mie capacità.

La mia esperienza personale con il «processo di pace» ebbe inizio a Ramallah, nel gennaio 2008, dopo essere stato assunto come consulente per l’unità di sostegno ai negoziati (NSU) dell’OLP, specificatamente incaricato del problema dei profughi palestinesi. Questo è avvenuto un paio di settimane dopo che un traguardo, durante la conferenza di Annapolis, era stato fissato: la creazione dello Stato palestinese entro la fine del 2008. Soltanto dopo 11 mesi di lavoro, nel novembre dello stesso anno, mi sono dimesso. Entro il mese di dicembre 2008, invece della creazione di uno stato in Palestina, ho assistito in TV all’uccisione di oltre 1.400 palestinesi a Gaza da parte dell’esercito israeliano.

Le mie forti motivazioni nel lasciare la mia posizione nella NSU e la mia valutazione del «processo di pace» sono state chiaramente spiegate ai negoziatori palestinesi nella mia lettera di dimissioni del 9 novembre 2008.

I «negoziati di pace» sono stati una farsa ingannevole per mezzo dei quali sono stati imposti da Israele, unilateralmente, con l’appoggio sistematico degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, termini tendenziosi. Lungi dal consentire una fine negoziata ed equa del conflitto, il processo di Oslo ha radicalizzato le politiche israeliane segregazioniste e giustificato l’inasprimento dei controlli di sicurezza imposti alla popolazione palestinese, così come la sua frammentazione geografica. Lungi dal preservare la terra sulla quale costruire uno Stato, ha tollerato l’intensificazione della colonizzazione del territorio palestinese. Lungi dal mantenere una coesione nazionale, il processo al quale ho partecipato, anche se brevemente, è stato determinante nel creare e aggravare le divisioni tra i palestinesi. Nei suoi sviluppi più recenti, è diventato una impresa crudele della quale i palestinesi di Gaza hanno maggiormente sofferto. Ultimo, ma non meno importante, questi negoziati escludevano la grande maggioranza del popolo palestinese: i sette milioni di profughi palestinesi. La mia esperienza, negli 11 mesi passati a Ramallah, ha confermato che l’OLP, data la sua struttura, non è in grado di rappresentare tutti i diritti e tutti gli interessi dei palestinesi.

Tragicamente, i palestinesi sono stati lasciati all’oscuro della sorte dei loro diritti individuali e collettivi nei negoziati, e la loro leadership politica divisa non era ritenuta responsabile delle sue decisioni o delle sue non azioni. Dopo essermi dimesso, ero convinto di aver il dovere di informare il pubblico.

Poco dopo l’inizio della guerra contro Gaza ho iniziato a scrivere della mia esperienza a Ramallah. Nel mio libro, Il ny aura pas d’Etat Palestinien (Non ci sarà uno Stato palestinese), concludevo: ”Il processo di pace è uno spettacolo, una farsa, giocata a scapito della riconciliazione palestinese e al costo dello spargimento di sangue a Gaza”. In piena coscienza, e agendo in maniera indipendente, ho poi accettato di condividere alcune informazioni con Al-Jazeera, in particolare per quanto riguarda la sorte dei diritti dei rifugiati palestinesi nei colloqui del 2008. Altre fonti hanno fatto lo stesso, anche se non sono a conoscenza della loro identità. Portare questi tragici sviluppi del «processo di pace» a un più ampio pubblico arabo e occidentale si giustificava poiché era nell’interesse generale del popolo palestinese. Non ho avuto, e continuo a non avere, alcun dubbio sull’obbligo morale, giuridico e politico di procedere in questo modo.

Oggi mi sento sollevato dal fatto che questa informazione di prima mano sia disponibile per i palestinesi nei territori occupati, in Israele e in esilio. In un certo senso, i diritti dei palestinesi sono tornati in possesso dei loro titolari e le persone sono ora in grado di prendere decisioni, libere da pregiudizi, sul futuro della propria lotta. Sono anche contento che chi ha in mano, a livello internazionale, le sorti del conflitto israelo-palestinese possa accedere a questi documenti. Il mondo non può più trascurare che, mentre il forte impegno palestinese per la pace è vero, la ricerca infruttuosa di un «processo di pace» impostato sulla base delle esclusive condizioni della potenza occupante porta a compromessi che sarebbero inaccettabili in qualsiasi altra regione del globo.

Infine, mi sento rassicurato dal fatto che il popolo di Palestina, nella gran maggioranza, capisce che la riconciliazione, tra tutte le sue componenti, debba essere il primo passo verso la liberazione nazionale. I palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, i palestinesi in Israele e i palestinesi che vivono in esilio hanno un futuro comune. Il percorso verso l’autodeterminazione palestinese richiederà la partecipazione di tutti, in una piattaforma politica rinnovata.

Hanno collaborato alla traduzione Ugo Barbero, Ireo Bono, Enzo Brandi, Elisa Campaci, Diana Carminati, Flavia Donati, Gianfranca Scutari, Alfredo e Vincenzo Tradardi.

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